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“Da Avellino, a quei tempi, non si tornava mai senza un’emozione”

di Roberto Beccantini

 

“Dal nord nebbioso di Milano al sud aspro d’Irpinia: memorabili, quelle trasferte. Memorabili davvero. Erano avventure, non viaggi comuni, dal protocollo condiviso e l’epilogo legato alle trame e ai risultati delle partite. L’Avellino in serie A era un inno alla provincia che sgobba sodo e lascia in pegno sempre qualcosa o qualcuno, un sentimento o un monumento (penso al gladiatorio Salvatore Di Somma). E allora. Dalla polvere della memoria affiora un Avellino-Milan 0-0 del 27 marzo 1988, stagione 1987-’88. La stagione che si concluse con il crollo del Napoli di Diego Armando (Maradona, naturalmente) e lo scudetto di quel Milan lì, il primo Milan di Arrigo Sacchi. Volo da Milano a Capodichino, poi taxi fino al Partenio. Il nostro Caronte era Armandino, signore d’altri tempi. Ci portava, ci aspettava, ci riportava. Allenatore dell’Avellino era Eugenio Bersellini, un tecnico che predicava calcio con una passione tirannica. Tutti insieme, appassionatamente: e se talvolta tutti indietro, pazienza. A petto in fuori, sempre.  Il Milan, «quel» Milan, aveva Ruud Gullit ma non Marco Van Basten, infortunato. Sacchi lo aveva trasformato in un laboratorio sofisticato, squadra corta, pressing alto, tutti per uno e uno per tutti. Rammento che, «salvo» nel risultato, non ci fu partita. Nel senso che il Milan sequestrò il campo e ridusse l’Avellino alle Termopoli. Dall’archivio affiora questa formazione: Di Leo; Ferroni (37’ Grasso), Murelli; Boccafresca, Amodio, Romano; Bertoni (Alessandro, non Daniel), Benedetti, Schachner (71’ Anastopoulos), Colomba, Gazzaneo. E sul fronte Milan, questa: G. Galli; Tassotti, F. Galli, F. Baresi, Maldini; Colombo, Ancelotti, Donadoni, Evani; Gullit, Massaro. Arbitro, Longhi di Roma.  Nessuno dei «lupi» cedette. Nessuno crollò ai piedi del calcio che ci avrebbe cambiati e divisi. Più il Milan avanzava in massa e lo accerchiava, più l’Avellino mulinava i gomiti e gli speroni e il cuore. E così il Milan si addormentò dentro il suo possesso palla, la noia diventò alleato prezioso.  Da Avellino, a quei tempi, non si tornava mai senza un’emozione”.

 

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