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Basket Avellino – “Sacripanti il miglior coach in Italia, nella pallacanestro mai dire mai…”

Hanno vissuto in fasi alterne della loro carriera e in periodi storici completamenti diversi la realtà di Pesaro. Chi come il “vate”  Valerio Bianchini è riuscito a regalare uno scudetto alla Vuelle nel 1988 (più altri conquistati con Cantù e Roma oltre alla nomina a membro dell’Italia Hall of Fame), chi come Stefano Sacripanti ha vissuto il ritorno in serie A dei marchigiani nel 2007, riportando in alto nelle due stagioni in riva all’Adriatico.   La scuola di allenatori italiani  “d’un tempo” come modello da seguire da un basket nostrano alla ricerca del rilancio dopo l’infuocata recente estate (Preolimpico docet). In quest’ottica Avellino, grazie al progetto  iniziato nell’estate 2015, sta provando a farsi strada  fra i vertici nazionali ed europei della palla a spicchi, seguendo anche quell’esempio che ha fatto le fortune di tante squadre nel passato.

Bianchini domenica si affrontano due squadre come Pesaro ed Avellino. Che impressione ha della Sidigas?

«Dai roster si nota che sono due squadre che non hanno scommesso tantissmo sugli italiani e ciò che me ne dispiace. La Sidigas, però,  ha un impianto solido sia in termine di roster sia in termini societari. Avere un General Manager capace al proprio fianco è un’altra formula vincente».

Lei sottolinea i pochi atleti tricolori presenti nel roster. In compenso la Scandone ha in Sacripanti uno dei suoi punti di forza.

«Pino è uno dei fiori all’occhiello della scuola di allenatori italiani. E’ cresciuto in un posto dalla grande tradizione cestistica quale Cantù ma è stato capace anche di sapersi affermare in altre piazze italiane tra cui Pesaro (di cui è un ex). Sacripanti è un allenatore molto identificato in un basket moderno dove i coach non vengono più associati con una idea precisa di pallacanestro. Coltiva una sua pallacanestro ed ha la capacità di sintetizzare le cose, di essere pragmatico e di saper trasmettere  dei valori. Sacripanti è tra i primi tre allenatori insieme a Menetti e Buscaglia di Trento».

Quale squadra italiana si avvicina maggiormente alla sua idea di basket?

«Bisogna puntare sulla politica intrapresa da Grissin Bon e Dolomiti su un nucleo solido di giocatori giovani, italiani a cui affiancare gli statunitensi. Avellino e Reggio Emilia sono squadre allenate bene e quando hai tali presupposti i risultati non tarderanno ad arrivare. Pesaro, al contrario, ha il problema che fa progetti stagionali: prende giocatori validi ma quando vengono valorizzati vanno altrove a monetizzare».

Con una squadra come Milano un campionato come quello italiano può essere scontato?

«C’era questo gap già negli anni scorsi. Del resto Sassari ha vinto un campionato, le altre sono concorrenziali. Mai dire mai nel basket perché con una Eurolega così dura e con tante gare sarà messa a dura prova e le altre dovranno approfittarne».

Come se ne può uscire la pallacanestro italiana da questo momento di difficoltà?

«C’è stato grande strepito di seguito a Torino ma la Nazionale non è stata capace di ripagare le attese dei tanti appassionati. Sono pochi gli italiani che giocano con ruoli di responsabilità e a pagarne è la stessa selezione azzurra e tutto il movimento. Si mettono a confronto. L’ultima vera Nazionale è stata quella di Recalcati a Atene quando c’erano cestisti che avevano responsabilità nei club. Niente cambia e uno dei problemi è l’immobilismo che c’è. Si voleva fare qualcosa per gli impianti, per le strutture ma difficilmente si cambierà di questo passo».

Quale dovrà essere il vero compito di Ettore Messina?

«Messina non può avere la bacchetta magica. Per far funzionare una macchina bisogna programmarla mesi prima. Un conto è stare con una squadra mesi ed anni prima, un conto una settimana o un mese. Le nostre giovanili dicono poco a livello internazionale: non hanno un campionato di formazione ma i giovani vengono gettati mischiati nella mischia della serie C e serie D coi passaportati presi per essere protagonsti».

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